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Petra

Mostra fotografica di Paolo Morello

Petra

Petra nell’antichità.
I primi insediamenti, databili tra la fine dell’VIII e l’inzio del VII secolo a.C., sulle colline intorno alla valle di Petra pare si debbano agli Edomiti, il popolo del quale si trova menzione nel libro dell’Esodo. La fama della città si deve però ai Nabatei, una tribù di nomadi che, proveniendo dall’Arabia, si insediò stabilmente in quell’area. Nella prima metà del II secolo a.C., i Nabatei si costituirono in regno, stabilendo a Petra la loro capitale e facendone nel volgere di pochi decenni una città ricca e potente. L’ascesa di Petra principalmente dipese da tre fattori: dall’orografia, che la rendeva pressoché inespugnabile, dalla presenza di acqua e, soprattutto, dall’ubicazione. Per alcuni secoli infatti Petra fu il crocevia tra le rotte carovaniere che da Aqaba e dallo Yemen giungevano a Damasco e a Costantinopoli, nonché il punto di passaggio obbligato delle merci – spezie, incenso, profumi, bitume – in transito dall’India al Mediterraneo e dall’Egitto alla Persia.

Tra i primi re nabatei di cui si abbiano notizie documentarie è ʿUbayda I (poi grecizzato in Obodas I), che regnò tra il 96 a.C. e l’85 a.C., e che venne divinizzato alla morte. A ʿUbayda I è dedicata una delle più fastose tombe ancora oggi visibili a Petra, il cosiddetto al-Deir (il Monastero). Intorno all’80 a.C., i Nabatei conquistarono il territorio dei Seleucidi, estendendo il loro dominio verso Nord fino a all’Eufrate e a Palmyra. Ulteriormente estese i confini del regno il figlio di ʿUbayda I, al-Harith III (più tardi grecizzato in Areta III), le conquiste del quale giunsero fino a Damasco. Ad al-Harith III è dedicata, verosimilmente, l’altra celeberrima tomba di Petra, il cosiddetto al-Khazneh (il Tesoro), nel quale impropriamente si credeva fosse custodito il tesoro di un faraone egiziano. Il maggiore successo di al-Harith III fu però l’accordo con i Romani di Pompeo, dai quali il regno nabateo riuscì a garantirsi una sostanziale indipendenza dietro il pagamento di un cospicuo tributo in argento. Petra visse il periodo di massima prosperità tra il 9 a.C. e il 40 d.C., sotto il regno di al-Harith IV, quando raggiunse la popolazione di circa 30.000 abitanti. Verso la fine del I secolo d.C., la sua fortuna cominciò tuttavia a declinare. Nuove rotte erano state aperte dai Romani – soprattutto lungo il Nilo e l’Egitto – e nuovi centri – come Bosra e Palmyra in Siria – avevano acquisito una importanza cruciale sulle rotte carovaniere. Nel 106 d.C., il regno nabateo fu annesso all’impero romano. Bosra divenne la nuova capitale dell’Arabia Petraea, e per Petra ebbe inizio un lento declino.

Burckhardt e la riscoperta di Petra.

Dopo molti secoli di oblio, la moderna riscoperta di Petra occorse nel 1812, e fu merito di un esploratore svizzero, Johann Ludwig Burckhardt. Nato a Losanna nel 1784, costretto a fuggire in Germania ed infine in Gran Bretagna, nel 1809 Burckhardt venne assunto dalla African Association come membro di una spedizione il cui obiettivo era esplorare le sorgenti del fiume Niger. Per questo fine, Burckhardt trascorse un periodo a Cambridge, dove studiò medicina, chirurgia, chimica, astronomia, mineralogia, nonché arabo, allenandosi allo stesso tempo a lunghe marce e a digiuni forzati. Quindi, al fine di perfezionare la sua conoscenza della lingua e della cultura araba, venne inviato in Medio Oriente. Ad Aleppo, in Siria, dove prese dimora, si inventò una nuova identità, prese il nome di Sheikh Ibrahim ibn Abdallah e imparò a vestire al modo delle popolazioni locali, fingendo d’essere un mercante indostano. La sua conoscenza dell’arabo divenne tanto perfetta da consentirgli di tradurre il Robinson Crusoe di Defoe. Durante i mesi del suo soggiorno in Siria, esplorò estesamente la regione e i suoi siti archeologici – compiendo viaggi a Damasco, a Baghdad, ma anche a Palmyra, a Ba’albek e nel Libano. Di questi viaggi, spesso avventurosi, tenne dettagliati resoconti in diversi diari, pubblicati dopo la sua morte, e in lettere che puntualmente spediva alla African Association a Londra. Il suo soggiorno in Medio Oriente si protrasse oltre il termine fissato e, nell’estate del 1812, Burckhardt decise di raggiungere Il Cairo seguendo la strada dei Re fino ad Aqaba, nell’idea di partire poi dall’Egitto alla volta di Timbuctu e delle sorgenti del Niger. Mosso dalle suggestioni che le sue molte letture gli avevano procurato, Burckhardt seguì la valle del fiume Giordano, visitò Amman (l’antica Philadelphia), salì sul Monte Nebo, dov’è la tomba di Mosè, costeggiò il Mar Morto, e da lì risalì fino al castello di Kerak, la roccaforte crociata. Infine, convincendo la guida con un pretesto, riuscì a farsi portare a Wadi Musa, la valle che i beduini gelosamente custodivano come un segreto. «Sembra molto probabile che le rovine di Wadi Musa siano quelle dell’antica Petra – annotò nel suo diario –, ed è notevole che Eusebio dica che la tomba di Aronne fosse vicino Petra. Di questo almeno sono convinto, per tutte le informazioni che mi sono procurato, che non vi siano altre rovine di sufficiente importanza tra le estremità del Mar Morto e del Mar Rosso che possano essere identificate con questa città. Se io abbia o meno scoperto i resti della capitale dell’Arabia Petraea, lo lascio alla decisione degli studiosi […]». (Johann Ludwig Burckhardt, Travels in Syria and the Holy Land. Description of a Journey from Damascus through the Mountains of Arabia Petraea and the Desert El Ty, to Cairo; in the Summer of 1812, London 1822).

Viaggiatori ottocenteschi.

Burckhardt aveva ventotto anni quando scoprì Petra. Morì solo cinque anni più tardi, nell’ottobre 1817. La pubblicazione postuma dei suoi diari di viaggio suscitarono un grande interesse e alcuni altri viaggiatori seguirono i suoi passi negli anni seguenti. Ma raggiungere Petra a quel tempo era davvero difficoltoso: la valle restava distante dagli itinerari abituali degli archeologi e degli artisti che si recavano in Terra Santa e nel Medio Oriente e molto elevata era la probabilità di venire depredati dalle popolazioni locali. Tanto più degno di menzione è dunque il viaggio di due giovani francesi, Léon de Laborde e Louis Linant de Bellefonds, che raggiunsero Petra nel 1828, eseguendo un gran numero di disegni, che ebbero poi grande circolazione, offrendo al pubblico occidentale le prime rappresentazioni dei monumenti della città nabatea. In particolare, il volume pubblicato da de Laborde nel 1836, Journey through Arabia Petraea to Mount Sinai, and the Excavated City of Petra, the Edom of the Prophecies, stimolò l’interesse di un pittore scozzese, David Roberts, il quale nel marzo 1839 compì un viaggio a Petra e in Medio Oriente nell’espressa intenzione di realizzare una serie di vedute da mettere, al suo ritorno in patria, in commercio. Così cominciava a fissarsi, accanto al mito letterario, l’immagine di Petra e dei suoi monumenti.

Più rare sono le testimonianze fotografiche. Tra i primi fotografi di cui si abbia notizia è Louis Vignes, che giunse a Petra nel 1864 insieme con la spedizione organizzata dal duca de Luynes, un collezionista, archeologo ed egli stesso fotografo, il quale, tra il 1866 e il 1874, avrebbe pubblicato il suo resoconto di viaggio illustrato da sessantaquattro tra photogravures e litografie tratte da originali fotografici (Voyage of Exploration to the Dead Sea, and on the Left Bank of the Jordan, Paris 1874).

La mostra.

Dalle esperienze di questi viaggiatori ottocenteschi prendono le mosse le fotografie di Paolo Morello. Sotto molti rispetti, le opere in mostra offrono spunto a una riflessione sulle origini dell’immagine di Petra.

Dichiarata Patrimonio dell’umanità nel 1985, Petra è il soggetto di una incalcolabile quantità di immagini, che ribadiscono sempre le stesse vedute, dagli stessi punti di vista, senza molto contribuire a una reale intelligenza del luogo. Come tante altre mète del turismo mondiale, da Gizah a Roma a Venezia, Petra finisce con il coincidere con la sua immagine. All’esplorazione, all’emozione della scoperta, che si percepisce vibrante nei resoconti dei viaggiatori ottocenteschi, i turisti moderni hanno sostituito una sorta di meccanismo di mera verifica, rispetto a qualcosa che si conosce già prima di arrivare sul posto, perché migliaia di volte si è vista sul web o rappresentata in immagini stereotipate. Le opere in mostra si sforzano, con spirito di volontaria provocazione, di infrangere i luoghi comuni sedimentati nell’immaginario collettivo. Qui Petra non è rappresentata come la pittoresca ‘città rosa’, e gli effetti cartolineschi del sole al tramonto sono accuratamente evitati. Le fotografie qui in mostra – tutte rigorosamente riprese in analogico e stampate in bianco e nero – cercano piuttosto di ristabilire un dialogo con le vedute dei viaggiatori ottocenteschi; e si sforzano di far riemergere il rapporto tra la natura, le rocce e l’architettura: un rapporto che, a Petra in modo particolare, è fondativo. I toni di grigio, quasi vellutati, sono il frutto consapevole di una riflessione sul fading e le sovraesposizioni caratterististici della fotografia dell’Ottocento. Così l’uso della prosettiva e la scelta dei punti di vista pone un confronto continuo con le convenzioni percettive proprie delle incisioni. Al contempo, però, il formato monumentale di queste fotografie (110×125 cm) proiettano queste vedute in una dimensione di grande contemporaneità. L’ambizione, dunque, di questo lavoro, pare essere duplice: tornare alle radici della visione, all’emozione della scoperta, allo spalancarsi dello sguardo, riflettere sulle origini della rappresentazione per garantire alla fotografia un futuro di consapevole e non effimera modernità.

Paolo Morello. Biografia.

Storico della fotografia, collezionista, fotografo ed editore, Paolo Morello si è formato presso la Scuola Normale di Pisa e il St John’s College di Oxford. Per molti anni, ha insegnato Fotografia e Storia della Fotografia presso le Università degli Studi di Palermo, Bologna, Brescia, Verona, l’Università Ca’ Foscari di Venezia, l’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano e, dal 2001 al 2009, all’Università Iuav di Venezia. All’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano, ha fondato e diretto il Master biennale in fotografia. Dal 2001 al 2010 è stato Contributing Editor della rivista ‘History of Photography’, e dal 1999 dirige l’Istituto Superiore per la Storia della Fotografia. Nel 2011, ha fondato Glint, una casa editrice di volumi di lusso, interamente fatti a mano, con sede a Londra. Nel 2012, ha fondato Studio, una galleria interamente dedicata alla fotografia con sede a Palermo.

È autore di molti fondamentali studi sulla storia della fotografia in Italia. Tra questi: Enzo Sellerio fotografo. Tre studi siciliani (1998); Briganti (1999); Amen fotografia (2000); Gli Incorpora (2000); Fulvio Roiter (2002); Alfredo Camisa. Carteggio 1955-1963 (2003); Piergiorgio Branzi (2003); Mario De Biasi (2003); Ferruccio Ferroni. Carteggio 1952-1959 (2004); Mario Lasalandra. Poeti, maschere, attori, fantasmi (2005); Gianni Berengo Gardin. Venezia (2006); Mario De Biasi. Budapest 1956 (2006); Carla Cerati. Nudi (2007); Gianni Berengo Gardin. Polesine (2008). Nello stesso anno, l’Istituto Superiore per la Storia della Fotografia ha pubblicato anche la sua fortunata Guida pratica al mercato della fotografia, mentre nel 2010 ha visto la luce il primo volume de La fotografia in Italia.

Collezionista appassionato, lavora da quindici anni alla creazione di una collezione di vintage prints, originariamente destinate a costituire il nucleo del primo Museo in Italia interamente dedicato alla fotografia italiana. Selezioni di capolavori dalla sua collezione sono state esposte a Parigi (2007), Milano (2010), e Mosca (2011). Nel giugno 2012, a Londra la casa d’aste Christie’s ha dedicato una intera sessione ad una scelta di opere provenienti dalla sua collezione.
Come fotografo, ha pubblicato per le edizioni di Glint: In principio, La leggenda del Ficus, La nostalgia di Afrodite, La pazienza del legno, Tat Tvam Asi (Tu sei Quello) e Viaggio in Sicilia.



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